Le botteghe di Tiziano
Tradizionalmente la storia dell’arte presume che i grandi pittori del passato, come Raffaello, Rubens e Rembrandt, abbiano prodotto i loro capolavori in una sorta di splendido isolamento. Solo di recente, gli specialisti si sono resi conto che le cose non stavano affatto così, ma che gli artisti erano a capo di botteghe più o meno allargate. Le loro opere, in gran parte, sono il risultato di un lavoro collettivo, non di un unico genio solitario. Stranamente, il vasto corpus delle opere di Tiziano Vecellio non è mai stato esaminato in modo sistematico sotto questo punto di vista.
Quella di Tiziano risulta essere una delle prime fabbriche d’immagini, operativa a livelli non solo locali e regionali, ma anche europei: un laboratorio che, in quasi tre quarti di secolo di attività, ha saputo realizzare una quantità sbalorditiva di opere pittoriche di vario tipo e categoria, segnando così profondamente il corso dell’arte italiana ed europea. Piuttosto che di “Tiziano” converrebbe parlare di un “sistema Tiziano”, di un organico flessibile, pragmatico, adattabile alle esigenze che si presentavano di volta in volta in forma diversa, del quale facevano parte personaggi come Francesco e Orazio Vecellio, Paris Bordon, Girolamo Dente, Polidoro da Lanciano, Jan van Calcar, e molti altri.
È facile immaginare che questo “sistema” agevolava la circolazione delle tipologie e dei modelli tizianeschi in maniera non sempre controllata o controllabile da parte del maestro. Non tutti i “Tiziano” sono opere di Tiziano, ma tutti i “Tiziano” sono collegati al sistema produttivo dell’officina. Ecco che si delinea la vastissima tematica affrontata nel libro con sostanziali novità di dati, anche sulle attività socio-economiche della “ditta Vecellio”, e di metodo.
Il libro offre, infatti, una serie di piste diverse per orientarsi nell’immenso catalogo tizianesco, muovendo lungo uno sviluppo cronologico che trova nel duplice soggiorno ad Augusta, presso la Dieta imperiale (1548 e 1550-1551), una congiuntura fondamentale e determinante nel riassetto del sistema di produzione. Il numero e le tipologie dei quadri realizzati da Tiziano e dalla bottega vengono monitorati in due fasi distinte, situate prima e dopo i viaggi in Germania e contraddistinte da esigenze e funzioni diverse. Vengono così individuati i principali filoni iconografici che Tiziano affronta usufruendo in larga misura del prezioso apporto dei collaboratori, le repliche dei soggetti realizzati per Filippo II di Spagna, o i temi devozionali diffusi soprattutto negli ultimi tre decenni di attività, con un’attenzione particolare alle questioni relative alla tecnica pittorica.
Nell’ultima sezione si chiarisce come ai confini della bottega, fra la fine del Cinque e i primi del Seicento, si sia andato cristallizzando progressivamente quel “modello Tiziano” che si sarebbe rivelato essenziale per la nuova concezione della pittura tramandataci da grandi maestri europei come Velázquez e Rembrandt.
Il libro è il frutto dell’impegno comune di quattro studiosi che, partendo da una concezione unitaria che si riflette nella struttura organica del volume, hanno affrontato la vastissima tematica con sostanziali novità di dati e di metodo, fornendo una serie di piste diverse per orientarsi nell’immenso catalogo tizianesco.
Senza dubbio il volume si presenta come il lavoro più importante e innovativo su Tiziano degli ultimi tent’anni.
Una holding chiamata Tiziano
Il funzionamento delle botteghe aperte dal pittore a Venezia e ad Augusta, gremite di parenti e allievi che aiutavano il maestro
di Enrico Castelnuovo
Tiziano e bottega, ambito di Tiziano, bottega di Tiziano, Tiziano e aiuti. Vorremmo capire meglio cosa significhino certi termini, che cosa si celi dietro i cartellini che leggiamo nelle sale dei musei. Crediamo di saperlo: «bottega di Tiziano» è termine diminutivo, l’opera pur chiaramente tizianesca, non ha le qualità che si riconoscono all’autore; «Tiziano e aiuti» indica che il dipinto non è interamente autografo, si tratta insomma di termini limitativi se non peggiorativi. Ma esiste l’autografia integrale cara ai connoisseurs e al mercato? Ed esiste una “bottega di Tiziano” o piuttosto ne esistono diverse? La cosa non è così semplice e il libro è assai importante non solo per le notizie sovente inedite sui diversi collaboratori di Tiziano, ma per quanto vi si legge sul formarsi e il funzionamento delle “botteghe”. Il fatto che se ne scriva al plurale è già di per sé un dato assai significativo che coinvolge tempi, spazi, persone e aspetti differenti, pur rimanendone al centro la casa-atelier di Biri Grande, non lontana dalle Fondamenta Nuove dove Tiziano visse e operò per quasi un mezzo secolo durante il quale il laboratorio ebbe modo di mutare aspetto e composizione. Partiamo dall’aspetto più ovvio: il coinvolgimento familiare. Cosa abbastanza comune per gli artisti, ma singolarmente esteso nel tempo nel caso di Tiziano: dal fratello Francesco al figlio Orazio, ai cugini Cesare e Marco, morto nel 1611 quasi quarant’anni dopo la scomparsa del maestro. Del clan fanno parte, oltre ai parenti alcuni fedelissimi come Girolamo Dente, non per niente detto Girolamo di Tiziano, e più tardi Valerio Zuccate e Emanuel Amberger, figlio del pittore che Tiziano aveva conosciuto ad Augusta, mentre aiuti, discepoli e collaboratori occasionali si succedono per breve tempo. Tra questi molti stranieri i neerlandesi von Calcar e Sustris, i bavaresi Hans Mielich e Christoph Schwarz e lo stesso El Greco. Altro aspetto lo spazio: i viaggi di Tiziano per incontrare l’imperatore ad Augusta nel 1548 e nel 1550-51 sono in questo senso particolarmente significativi perché qui, come più tardi a Madrid, nasceranno quelle che potremmo chiamare delle “botteghe virtuali”, botteghe di Tiziano senza Tiziano ma suscitate o dal passaggio e dalla breve attività dell’artista in loco o dall’arrivo di opere sue fondamentali come quelle eseguite per Filippo II e per l’Escorial. Ad Augusta era giunto con alcuni collaboratori, non forse «le sette bocche da sfamare» di cui parla in una lettera ma certo tre o quattro persone di cui si avvale sia per aiutarlo nella stesura, sia per replicare opere particolarmente richieste, qui entra in contatto anche con pittori locali come Christoph Amberger che lo aiuta a restaurare il celebre Carlo V alla battaglia di Mühlberg dai danni riportati per una accidentale caduta e di cui il figlio, Emanuel, sarà più tardi un suo fedelissimo discepolo e collaboratore. E forse incontra anche Lucas Cranach che aveva seguito nella sua prigionia il suo patrono, l’elettore di Sassonia. Ad Augusta, nelle case dei Fugger, e naturalmente al Biri Grande, Tiziano aveva una «stanzia» privata dove si ritirava a dipingere, distinta dal grande spazio dell’atelier che era il luogo del lavoro collettivo. I membri delle botteghe partecipavano all’opera del maestro in diversi modi, diretti e indiretti, terminando tele appena abbozzate abbigliandole con «panni e vestimenti», replicando temi e composizioni di opere di successo, moltiplicando i ritratti più ricercati come quelli dei pontefici o dei sovrani, utilizzando e assemblando formule e schemi compositivi già sperimentati in opere destinate alla provincia prossima o lontana, come è il caso della celeberrima Assunta dei Frari il cui modello è ripreso in Dalmazia nel polittico di Dubrovnik o nel Feltrino in quello di Lentiai. Significativa, e in qualche modo rivelatrice, è l’attività autonoma dei collaboratori, che colonizzano con le loro opere intere aree come l’avito Cadore, dove le richieste di pitture si intrecciano con problemi di rendite fondiarie e di cariche. Qui, le chiese di San Vito, di Venàs, di Vinigo, di Perarolo, di Calalzo, di Pieve, di Nebbiù contano opere di Francesco, di Orazio, di Cesare e di Marco Vecellio. Dipingere per le comunità cadorine è tuttavia altra cosa che lavorare per committenti della Dominante, altre le attese altre le consuetudini e i dipinti dei collaboratori di Tiziano sono qui ben diversi, spesso più arcaicizzanti, meno strutturati da quelli che gli stessi approntano per Venezia. Ciò si deve alla volontà di adeguarsi ad abitudini e a voleri altri da quelli prevalenti in laguna ma anche alla mancanza di un progetto del quale Tiziano solo poteva concepire e controllare l’esecuzione. L’imporsi dei modelli tizianeschi in Europa è il prodotto di una quantità di fattori: la vasta produzione dell’officina, la grande diffusione attraverso le stampe, l’eccezionale autorità dei modelli che continuarono ad esercitare un richiamo ineludibile attraverso il tempo e lo spazio. Lo spiega, lo presenta, lo esemplifica questo imponente volume che intende restituire l’intero sistema operativo di Tiziano, impresa che implica tempi assai lunghi e coinvolge vari autori. Un libro importante la cui realizzazione si deve al Centro Studi Tiziano e Cadore benemerita istituzione che tra boschi e crode riesce a pubblicare una rivista di alto livello come «Studi Tizianeschi» e a portare avanti iniziative culturali che richiedono gran tempo e grande impegno.
(Copyright Il Sole 24 ore 2010)
Azienda Tiziano
L’efficientissima organizzazione produttiva era fondata sul coinvolgimento di allievi, parenti e collaboratori
di Antonio Paolucci
Quando il giovane Tiziano dipinge al Santo di Padova i suoi primi affreschi con le Storie di sant’Antonio, i documenti contabili lo registrano come depintor, uno dei tanti che fornivano la loro opera di apprezzati artigiani nei palazzi e nelle chiese di Venezia e del Dominio.
Siamo nel 1511. Sessanta anni dopo, nell’incisione a stampa che divulgava in Europa il Martirio di san Lorenzo capolavoro della vecchiaia, Tiziano si firma eques caesareus. A quella data egli è cavaliere imperiale, conte palatino, i suoi clienti sono l’imperatore Carlo v, il fratello re Ferdinando, Maria d’Ungheria reggente dei Paesi Bassi, Massimiliano re di Boemia, i grandi Elettori del Reich germanico, il Papa di Roma, il potente banchiere Anton Fugger, il Doge e gli oligarchi della Serenissima Repubblica.
Il pittore originario delle montagne del Cadore che aveva mosso i primi passi nella Venezia del vecchio Bellini e del giovane Giorgione, ha fatto, in sessant’anni, una carriera splendida e gloriosa. Ha goduto e gode della totale fiducia dell’imperatore Carlo v e poi di suo figlio Filippo ii. Nel 1547-1548 e poi nel 1550-1551 è stato ospite della Dieta Imperiale ad Augsburg. I suoi quadri hanno prezzi accessibili soltanto alle élites d’Italia e d’Europa.
È anche molto ricco Tiziano allo zenith della sua fortuna. Investe con sagacia i proventi della sua professione, moltiplica gli interessi commerciali e finanziari, gestisce una vera e propria industria pittorica. Solo la dorata vecchiaia di Picasso può essere paragonata a quella di Tiziano.
Dalla casa-atelier veneziana di Biri Grande, insieme residenza, laboratorio, spazio espositivo e ufficio, il pittore tesse e governa una fitta rete di internazionali relazioni che possiamo definire “sistema Tiziano”. Questa definizione – sintesi insieme della attività professionale, della fortuna critica e del successo di mercato del grande pittore durante il corso del XVI secolo – la incontriamo in un monumentale volume curato da Giorgio Tagliaferro e Bernard Aikema, con Matteo Mancini e Andrew John Martin.
Le botteghe di Tiziano si intitola il volume (Firenze, Alinari 24Ore, 2009, pagine 270, euro 90) ed è giusto declinare il nome al plurale perché i modelli del Vecellio, la sua “officina di immagini”, hanno i loro centri principali di produzione e di divulgazione nell’atelier veneziano di Biri Grande e nella Augsburg delle Diete imperiali, riverberandosi nella pittura europea del Manierismo internazionale. Con Lambert Sustris, Hans von Aachen, Hendrick Goltzius, Cornelis van Harlem, Jan Stephan van Calcar, Anthonis Mor.
Ma come funzionava in concreto il “sistema Tiziano”? Funzionava grazie a una formidabile ed efficientissima organizzazione produttiva fondata sul coinvolgimento di allievi, di parenti, di collaboratori.
Per più di mezzo secolo, come pianeti intorno al loro sole, ruotano intorno a Tiziano schiere di pittori, diversi per provenienza, per qualità, per formazione. Alcuni con ruoli di cooperazione continuata, altri soltanto occasionale.
Con la diffidenza tipica del montanaro, Tiziano si fida in primis della famiglia, intesa come blocco di interessi, come impresa. Ed ecco emergere sugli altri il nome del fratello Francesco Vecellio, del figlio Orazio, del nipote Marco, del cugino Cesare. Insieme ai loro nomi figurano quelli di artisti conosciuti e riconoscibili: Gian Paolo Pace, Girolamo Dente, Polidoro da Lanciano. Mentre di molti altri collaboratori è impossibile arrivare all’identità anagrafica.
Carlo Ridolfi, storico veneziano del Seicento, scrive che quando Tiziano usciva di casa “lasciava a bella posta le chiavi nel camerone dove teneva le cose pregiate e durante la sua assenza i discepoli si davano a far copie delle opere più belle, stando uno di loro di scorta”. Poi – continua il Ridolfi – il Maestro, tornato in studio, le finiva di “sua mano”.
L’atelier di Tiziano quasi come una specie di catena di montaggio che licenziava, con il marchio della ditta, quadri di diversi e spesso minimi livelli di autografia.
Le “cose pregiate”, quelle che più interessavano i mercanti e i collezionisti e che quindi più conveniva copiare, erano le tele a soggetto mitologico-erotico. Quante Veneri nude, quante Danae fecondate dall’aureo seme di Giove nel corpus di Tiziano! Alcune totalmente autografe, altre solo parzialmente, molte nelle quali la presenza diretta di Tiziano si avvicina o tocca lo zero.
L’idea che l'”officina di immagini” inventata da Tiziano e divulgata in tutta Europa, da Madrid a Dubrovnick da Praga alle Fiandre, poggiasse su un team-work perfettamente collaudato, efficiente e flessibile, è indubbiamente suggestiva. Soprattutto è vera. Del resto così, nei secoli passati, era organizzata l’industria delle figure.
Le Vite di Giorgio Vasari ci hanno educato a una concezione personalistica dell’attività degli artisti. La cultura romantica con l’esaltazione del “genio” inimitabile ha fatto il resto.
Questo libro di Giorgio Tagliaferro e di Bernard Aikema ci fa intendere la straordinaria importanza della bottega nella storia delle arti. Il caso di Tiziano è esemplare. Se le sue Vergini Assunte, i suoi Cristi flagellati, le sue Veneri e le sue Danae hanno conquistato l’immaginario d’Italia e d’Europa, è perché una vera e propria “azienda” di allievi e di copisti ha divulgato quelle figure, magari reinterpretandole, magari adeguandole – come spesso accade nel caso dei pittori stranieri tedeschi e fiamminghi – al gusto e alla cultura figurativa della patria di origine.
Se noi esaminiamo nella sua interezza il corpus di un grande pittore del passato (Raffaello, Rubens, Rembrandt) ci accorgiamo che esso è il risultato di un lavoro collettivo, non di un unico genio solitario.
Non avremmo il Raffaello delle Logge senza Giulio Romano e Perin del Vaga, senza Polidoro da Caravaggio e Giovanni da Udine, senza il Machuca e il Marcillat, senza tutti gli altri che hanno messo in figura le idee dell’Urbinate. Gli affreschi delle Logge non sono mai stati direttamente toccati dal pennello di Raffaello. Eppure sono suoi quanto i ritratti Doni o la Madonna della Seggiola, dipinti di riconosciuta totale autografia.
Allo stesso modo non avremmo la fortuna di Tiziano, il riconoscimento del suo destino centrale nella storia della veneziana civiltà del colore, senza i tanti artisti che in ruoli diversi, a livelli di qualità disuguali, in forme di coinvolgimento più o meno impegnative, hanno contribuito a costruirne il corpus.
(©L’Osservatore Romano 9 luglio 2010)